A seguire, l’intervista rilasciata da Francesco Morgese ai nostri microfoni:
Com’è nata la sua vocazione? Cosa ha fatto nascere nel suo cuore questa scelta?
«La mia vocazione è inseparabile dalla mia conversione. E la mia non è stata certamente una conversione immediata, paolina; piuttosto, è stato un lento maturare e discernere gli avvenimenti della mia vita. Pur avendo frequentato da piccolo l’asilo dalle suore e avendo sempre fatto catechismo, crescendo, già dagli ultimi anni delle elementari, ricordo che l’esperienza della vita nella Chiesa m’interessava pochissimo. Iniziavo a studiare le cose per conto mio e ad informarmi soprattutto sulla scienza, che esercitava su di me una vera e propria seduzione. Alle scuole medie già combattevo le mie prime battaglie “laiche” durante l’ora di religione. In più durante il mio secondo anno di scuole medie, ho subito un intervento molto delicato ad un femore a causa di una brutta frattura avvenuta a scuola. Questo mi costrinse a stare quasi un anno su una sedia a rotelle e a terminare l’anno a casa poiché era difficile spostarmi per andare a scuola. Fu un evento certamente traumatico, e ricordo che non capivo il perché di quello che mi accadeva.
Devo ammettere, però, che quell’anno trascorso in ristrettissima mobilità mi ha dato l’occasione di leggere una quantità incalcolabile di libri. Ne ho letti tantissimi, di ogni genere e difficoltà, e credo ancora che molta parte della cultura che possiedo dipenda in gran parte dalle letture di quell’anno. In quest’esperienza, però, si corroborò la mia lontananza dalla fede, che nei primi anni di liceo scientifico divenne vero e proprio anticlericalismo. I primi due anni del liceo furono anche gli anni delle prime esperienze amorose “serie”. In tutti i rapporti però, sia amorosi che di amicizia, ho sempre avvertito una sorta di “mancanza”, quasi una nostalgia di Qualcosa o Qualcuno che era presente negli altri ma solo come riverbero. Ho sempre avuto un forte senso del mistero che abita le cose. Ogni cosa sembrava gridarmi: “Non siamo noi l’essenziale, è un Altro!” ma non riuscivo mai a pervenire a questo Altro che cercavo in altri. Il mio spirito positivista, in fondo, non voleva ammettere di essere uno spirito profondamente religioso: cercavo ciò che era evidente ma ciò che avrei voluto fosse davvero evidente, cioè il senso delle cose, l’Altro che si celava e al contempo mostrava tramite gli altri, non mi si svelava mai. La realtà, seppur gioiosa, era però avvolta da un velo di malinconia, il mondo mi parlava, ma non capivo chi mi parlasse nelle cose della quotidianità.
Un giorno (ero in terzo superiore) mi ritrovai “per caso” in una chiesa del mio paese ad una celebrazione presieduta dall’allora Mario Paciello. Quest’ultimo commentò i primi versetti del capitolo 10 di Luca e tenne un’omelia travolgente sulla chiamata di Dio. Io non riesco a descrivere con chiarezza ciò che avvenne in me. Fu un’esperienza molto simile alla notte dell’Innominato del Manzoni. Quelle parole scavarono in me e arrivarono a toccare il mio cuore in ricerca, finché non mi si palesò con evidenza l’Evidente: quell’Altro che cercavo, mi aveva per la prima volta parlato con chiarezza. Io che per tanto tempo ho cercato la verità, proprio quando ero distratto sono stato raggiunto da essa. Il mio cuore inquieto, per la prima volta nella vita, sentì di aver trovato un porto dove attraccare, un cuore dove poter riposare: il cuore di Dio. Fu l’esperienza di scoprirsi amato fin dall’inizio, di scoprirsi scelto per una vita piena e felice, scelto per essere amato ed amare. Fin dal principio, dunque, la mia conversione è stata strettamente legata ad una certa “idea” di consegnarmi tutto al Signore: la chiamata ad una vita cristiana autentica fin da subito ha avuto in me connotati di radicalità. Un’altra tappa importante per la mia conversione fu la lettura “casuale” del testo Introduzione al cristianesimo dell’allora cardinale Joseph Ratzinger. L’incontro con questo testo mi convinse anche intellettualmente e ragionevolmente della verità del cristianesimo. Questo aspetto dello studio filosofico-teologico e intellettuale in generale che iniziò con la lettura del suddetto libro mi ha accompagnato costantemente negli anni, fino ad oggi.
Lo studio della filosofia e della teologia è diventato sempre più una parte non solo importante, ma anche essenziale del mio rapporto con Dio e del mio vivere quotidiano. In questa nuova vita alla presenza di Dio tutte le cose furono in un certo senso ricreate; divenne nuovo il volto di tutta le Terra. Ogni cosa acquistò quella capacità simbolica che prima rimaneva solo accennata e incompleta. Tutto mi diceva di Lui, iniziava un nuovo modo di vivere e di percepire l’esistenza. I volti di coloro che incontravo diventarono l’appello di Dio a me. Nulla mi era più indifferente, tutto acquistava luce e fascino perché illuminato dalla luce di Dio. Nell’ultimo anno di liceo incontrai il movimento di Comunione e Liberazione. L’esperienza del movimento mi entusiasmò molto e continuai a seguirla anche negli anni successivi. Quando arrivò il momento di iscriversi all’università capii fino a che punto l’incontro con Cristo mi avesse cambiato fin nel profondo Fin da piccolo desideravo studiare fisica. Ora, mi trovavo a voler approfondire gli studi filosofici e teologici. Decisi perciò di iscrivermi alla facoltà di Filosofia all’Università degli Studi di Bari. Gli anni di università sono stati anni carichi di esperienze ed incontri estremamente significativi. La vita nel movimento di CL in università è stata molto intensa: ho organizzato convegni, mostre, incontri vari e anche esperienze politiche in università. Sono stati anni in cui ho coltivato amicizie bellissime che durano tuttora. Dentro di me, però, qualcosa tornava a spingermi in un’altra direzione. Attraverso un discernimento con alcuni gesuiti capii che il Signore mi chiedeva di gettare le reti dall’altro lato. Decisi così di terminare al più presto gli esami che mi restavano ed iscrivermi alla facoltà di Teologia alla Pontificia Università Gregoriana. Iniziava una nuova avventura affascinante. Arrivai a Roma praticamente da solo ma subito mi fu chiaro che il posto dove dovevo essere era proprio lì. Ho iniziato a frequentare il primo anno di Teologia, ho stretto nuove importanti amicizia con alcuni gesuiti miei compagni di corso. Il rapporto con questi amici gesuiti è stato determinante per ridestare in me l’idea della vocazione: anche prendere una birra con loro era fare discernimento! Durante i primi due anni in Gregoriana da laico è riemerso in modo potente il desiderio di radicalità e di dedizione a Dio e ai fratelli. Ho iniziato, per questo, un cammino col mio padre spirituale, che mi ha aiutato a discernere e a mettere dei passi concreti per arrivare a comprendere quale fosse il piano di Dio sulla mia vita. Sono andato, così, a conoscere il mio nuovo vescovo, mons. Giovanni Ricchiuti. Immediatamente ho avvertito in lui un “padre”, ho sentito di potermi fidare e potergli confidare questo presentimento di chiamata che avvertivo. In quei due anni, nonostante la lontananza fisica, ho riscoperto un amore e un interesse nuovo per la mia diocesi e la comunità ecclesiale in cui sono nato.
La conoscenza di mons. Ricchiuti non ha fatto altro che confermare un presentimento positivo sull’esperienza di Chiesa della mia diocesi. Il mio vescovo ha subito compreso i miei “desideri” e mi ha proposto di contattare mons. Ermenegildo Manicardi, rettore dell’Almo Collegio Capranica. Così ho incontrato don Gildo con grandissimo piacere e mi ha proposto di iniziare un cammino di discernimento come “shock di concretezza” e che io ho percepito subito come possibilità affascinante. Negli anni di seminario a Roma quel presentimento che sempre mi accompagnava come sottofondo è diventato sempre più certezza: il Signore mi chiedeva di servirlo dedicandomi alla sua Chiesa totalmente, senza riserve, con abbandono, generosità e impegno».
Quanto è importante la presenza di Gesù nella sua vita?
«Per me, oggi, questa domanda suona come: quanto è importante la presenza dell’aria nella tua vita? Nel senso che Cristo ha “invaso” ogni aspetto della mia vita, arricchendolo di bellezza, amore, gioia, pace… una vita senza di lui mi sembrerebbe impensabile oggi, a prescindere dal dato della vocazione particolare. C’è una vocazione più originaria, che è quella alla felicità, e solo Cristo è in grado di compiere questo desiderio d’infinito che ho nel cuore. C’è un commento rabbinico al passo della creazione dell’uomo che spiega bene quello che tento di dire. Quando Dio disse: “facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”, prese l’argilla e la plasmò, modellandola sul palmo della sua mano, lasciando in essa la sua impronta. Mentre le altre creature furono create con la parola, nel formare l’uomo Egli impiegò le sue mani, la sua arte, il suo cuore e, non ultimo, il suo respiro. Fece pressione sul suo petto, affinché il cuore prendesse a battere e lì vi lascio un’impronta più forte. Adamo aprì gli occhi al mondo. Dio disse: “Parlami Adamo!”. Adamo disse: “mio Signore, un vuoto mi hai lasciato nel cuore, la tua impronta che altri non potrà colmare. Solo questo ti chiedo: non lasciarmi!”. Ecco, in sintesi Cristo per me è proprio questo: Colui che colma quel vuoto che solo lui può colmare, Colui rende l’immagine di Dio in me compiuta, rendendomi felice».
Sente di voler dire qualcosa ai giovani che oggi decidono di intraprendere il suo stesso percorso di vita?
«Ai giovani che oggi decidono di intraprendere la strada verso il sacerdozio voglio dire innanzi tutto che è un’avventura meravigliosa alla scoperta di sé stessi. Il seminario, gli studi che si fanno, le relazioni che si instaurano con i superiori e con i compagni di cammino, il molto tempo per la preghiera e la meditazione delle Scritture sono occasioni privilegiate anzitutto per andare al fondo di sé stessi e capire cosa ci rende davvero felici. Noi immaginiamo il rapporto con Dio in verticale, ma spesso dal basso verso l’alto. La mia esperienza invece è che la direzione è opposta: non perso l’alto, ma verso il profondo di sé stessi. È lì che s’incontra Dio e si entra in dialogo con lui. È vero, il cammino verso le proprie profondità interiori può fare paura, perché lì s’incontrano con onestà le proprie fragilità, i propri limiti, le proprie paure. Ma mi vien da dire: ben venga! Sono queste “brutture” a farci comprendere quanto Dio ci ami, perché ci ama proprio così come siamo! E poi, non serve avere fretta di capire o cambiare: il cristianesimo non è intellettualismo o etica, innanzitutto. È l’incontro con una Persona viva che ci ama con un amore folle. È nel dialogo con Dio che le risposte arrivano pian piano come chiarezza interiore, come pace nel fare delle scelte. E anche il cambiamento, avviene quasi impercettibilmente, perché non è una nostra opera, ma è l’opera di Dio in noi che con pazienza e discrezione plasma il nostro cuore. È pero importante anche avere qualche figura già navigata nei meandri della spiritualità, un padre spirituale, perché un occhio esterno può guardare con più oggettività ciò che noi pian piano scopriamo. Non bisogna neanche avere paura che magari sia troppo tardi: io sono entrato in seminario a 26 anni. Anche io mi sono detto a volte che potevo compiere prima questo passo. Col senno di poi, però, posso dire che ogni esperienza che ho fatto prima era fondamentale come preparazione a una scelta matura e consapevole. E comunque, ad un certo punto diventa quasi impossibile resistere: se Dio chiama, si può indugiare, ma non rispondere significherebbe, in fondo, condannarsi da se stessi all’infelicità».
(Articolo e intervista a cura di Michele Laddaga)