Eustachio nasce a Gravina in Puglia il 1° gennaio 1857 dal notaio Giuseppe Montemurro, di Matera, e da Giulia Barbarossa, di distinta famiglia di Minervino Murge BA. Oltre alle doti intellettuali e morali, per le quali sin da fanciullo si segnalerà, mostra un temperamento vivace, dinamico, intraprendente, volitivo e generoso. Alla sua educazione contribuiscono i genitori, che in Gravina si distinsero per l’esimia vita di fede e la generosa carità verso i poveri e gl’infermi, e gli zii canonici Federico e Leopoldo Barbarossa. Nella scuola elementare e ginnasiale, da questi zii istituita a Minervino, Eustachio riceve la prima istruzione.
Nel giugno 1867 Eustachio, per epidemia colerica, perde la mamma, la sorella M. Francesca, il fratello Federico Gregorio.
Il trauma della morte di tante persone care, senza ostacolare l’equilibrio del ragazzo, ne acuisce il senso di responsabilità, per cui egli riesce ad attendere allo studio con tali risultati da accedere, non ancora quindicenne, al liceo classico di Matera, distinguendosi per condotta e profitto. Il triennio materano, 1872-1875, incide ancora positivamente sulla formazione della personalità del giovane studente.
Al liceo “Emanuele Duni” di Matera, oltre ad essere d’aiuto ai fratelli Francesco e Luigi, che lo raggiungono un anno dopo dimorando con lui nel Convitto annesso, Eustachio ha modo di frequentare gli zii paterni, che conducono vita povera. Si rende conto dei disagi in cui si dibattono coloro che pur versando in ristrettezze economiche non tendono la mano e il suo senso innato di giustizia, gli sgombra il cuore da esigenze superflue, colmandolo di sensibilità per il prossimo. Ne esce irrobustito psicologicamente e spiritualmente per affrontare gli studi universitari senza sbandamenti. Nell’autunno del 1875 Eustachio s’iscrive alla facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Napoli.
Coerente con i saldi principi religiosi e morali trasmessigli dalla famiglia, corroborato dalla grazia, appassionato per gli studi e desideroso di conseguire al più presto il dottorato per non essere di troppo peso al padre, si tiene lontano da ozi pericolosi, dedicandosi allo studio con assiduità e impegno. Perciò consegue, il 23 luglio 1879, il diploma speciale in matematica e scienze naturali e, il 23 agosto 1881, la laurea in medicina e chirurgia. Subito dopo, la sua formazione si rinsalda con l’esperienza del servizio militare compiuto a Bologna.
Rientrato a Gravina, Eustachio esercita per 22 anni la professione medica, dando prova di speciale competenza, amore verso gl’infermi, crescente abnegazione, impegno diuturno disinteressato, capacità di dialogo e spirito di collaborazione.
Agli inizi, per assicurare ai malati poveri un’assistenza coscienziosa e tempestiva, egli, che pure aveva bisogno di mezzi di sussistenza, rifiuta la nomina di medico condotto, dichiarandosi disponibile solo se tale condotta si fosse resa praticabile dividendo il servizio per rioni.
Svolge anche attività politica, sociale, assistenziale, caritativa. È consigliere comunale, docente e dirigente scolastico, presidente di Opere pie. Durante la sua vita di laico prende a cuore la «questione sociale del Meridione» e sostiene con coraggio gli interessi di poveri e diseredati.
Sull’esempio di Cristo ama gl’indigenti e li soccorre con le proprie sostanze e col ricavato del suo lavoro quotidiano. Non accetta compenso per il suo impegno nelle diverse scuole cittadine, onde favorirne il mantenimento a beneficio della gioventù, e per la direzione e assistenza sanitaria prestata alle Opere gestite dalla Congregazione di carità.
Nel 1892, mentre è in piena attività, il dott. Montemurro, assistendo i suoi pazienti, contrae il tifo. Divenute gravi le sue condizioni, egli fa voto alla Vergine Addolorata che, guarito, risponderà alla chiamata divina al sacerdozio, che da molto tempo avvertiva.
Subito consegue perfetta guarigione, ma, ostacolato dal padre ad attuare la promessa di abbracciare il sacerdozio, ne dilaziona la decisione rimettendosi nel lavoro con maggiore impegno. Tuttavia gli si impone con insistenza il pensiero del voto fatto e l’invito pressante della grazia che lo attrae alla vita clericale. Ne parla allo zio can. Leopoldo, il quale gli consiglia di continuare a servire il Signore nella vita professionale.
Il 6 giugno 1895, ancora immerso nel suo grande dolore per la morte del padre, notaio Giuseppe, avvenuta il giorno 2, il dottor Montemurro riceve la nomina a presidente della Congregazione di carità, da cui dipendevano tutte le opere di assistenza e beneficenza del Comune. Egli conosce il precario stato economico in cui versano le Opere dipendenti dall’Ente per la cattiva gestione e, tuttavia, accetta la nomina, ma a condizione che in Congregazione si pensi ad amministrare il patrimonio dei poveri nel rispetto della giustizia: senza via di parte.
Per un triennio Montemurro esercita l’incarico di presidente, profondendo il meglio di sé per i malati, gli anziani, le orfane, le giovani, i bambini dell’asilo infantile e compiendo ogni sforzo per risanare lo stato economico delle Opere Pie. Dopo tre anni di servizio, compiuto con disinteresse personale e amore, egli, non tollerando intrighi di carattere burocratico, il 17 febbraio 1897 si dimette spontaneamente dalla carica.
Nel lasciare la presidenza si spoglia persino di alcuni oggetti cari appartenuti alla sua famiglia per una lotteria in favore delle orfane. Si impegna inoltre al versamento di lire cinquanta annue, vita natural durante, da sorteggiare ogni 2 giugno, anniversario della morte del padre, per il “maritaggio” di un’orfana, e all’assistenza medica gratuita alle stesse orfane e ai bambini dell’ Asilo infantile.
Gratuita, e per ben 22 anni, fu anche l’opera di direttore sanitario prestata all’ospedale “S. Maria del Piede”, come gratuito fu l’insegnamento di varie discipline nelle scuole del Seminario diocesano prima e del Comune dopo, ed ancora furono gratuite le visite mediche ai malati poveri. Anzi l’onorario stesso della sua professione era devoluto, in massima parte, per sovvenire ai bisogni del prossimo: sussidi a studenti poveri, “maritaggi” per fanciulle orfane, offerte per il Seminario della diocesi, fitto di casa a famiglie bisognose.
«Questo amore del prossimo, – ha scritto l’avv. Filippo Gramegna – innato in lui, non poteva non diventare carità ardente capace d’ogni rinunzia e sacrificio per la gloria di Dio».
Nell’arco dei suoi 45 anni di vita laicale il medico gravinese, in un alternarsi di gioie e di dolori e in un crescendo di successi professionali con attenzione ai problemi sociali, sperimentò: la povertà e l’umiltà dei Montemurro di Matera, da cui proveniva il padre; l’agiatezza e la raffinatezza dei costumi dei Barbarossa, da cui proveniva la madre; la dolcezza di una famiglia, ricca di umanità e religiosità e la ferita infertagli dai gravi lutti, che lo privarono di ogni affetto umano; le fatiche per procurarsi di che vivere e la gioia e possibilità di sovvenire e confortare molti nei loro bisogni, testimoniando nella vita di ogni giorno la sua adesione di fede e di amore a Cristo, che dice: «Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt 25, 34-36).
Il profilo di Montemurro, «frequentatore dei poveri, uomo di riflessione sociale e di sentimenti civili – ha scritto lo storico Andrea Riccardi – ricalca quello di figure di “santi” laici, di professionisti impegnati non solo nella terapia, ma anche nell’igiene e nella educazione: […] Questo “medico santo” diventa prete» (Convegno storico nazionale, 1994, p. 239).
Sacerdote fervente
Il 1° gennaio 1903 il “medico santo”, come molti lo chiamavano, vinte tutte le resistenze, segue la chiamata del Signore al sacerdozio. Dopo essere stato, come medico, modello perfetto di laico cristiano, si fa apostolo nel mondo e nella professione, testimoniando sia l’amore di Dio per i fratelli, sia l’amore dei fratelli verso i fratelli, aiutando i più deboli, i più poveri, i più abbandonati.
Il Vescovo Cristoforo Maiello, nel conferirgli la veste talare, invita «i fedeli a rendere sentite grazie al Signore per questo grande acquisto che faceva la Chiesa di Dio».
Il 24 settembre 1904, all’altare maggiore della cattedrale di Gravina, il dott. Eustachio Montemurro è consacrato presbitero.
Col sacerdozio, egli rinsalda la sua scelta di seguire Cristo crocifisso e di lavorare nella Chiesa per sollevare i più poveri nei quali Lo ritrova.
La città di Gravina all’epoca contava 20.000 abitanti e 35 sacerdoti. Di questi 18 costituivano il capitolo della cattedrale e 12 erano cappellani della chiesa dell’ Opera pia Sacro Monte dei Morti di patronato della famiglia Orsini.
Il vescovo Maiello in una relazione alla S. Sede del 1903 scriveva: «Oh se si potessero ripristinare le canoniche e il clero vivesse unito! Quanti scandali, quante offese a Dio si eviterebbero e quanto meglio si servirebbe la Chiesa!».
Il giorno 26 ottobre don Eustachio è nominato vice parroco della chiesa di San Nicola. Al pari del vescovo, che auspicava la vita comune del clero per ovviare a diversi inconvenienti in cui questo s’imbatteva, don Eustachio è consapevole che si rendeva necessario un intervento straordinario per avviare un’idonea pastoralità ed essere a servizio di tutti e dei poveri in particolare.
Da vice-parroco egli si dedica con amore e con gioia particolarmente alla formazione dei fanciulli e dei giovani e all’assistenza ai moribondi, accorrendo al loro capezzale per prepararli all’estrema dipartita. Per la sua nuova missione, in un certo senso, connessa con quella precedente di medico, egli può penetrare più profondamente nelle pieghe della società del suo tempo e del suo paese, e conoscere cause ed effetti di un ministero pastorale a lungo trascurato. Si rende conto che solo il servizio di sacerdoti zelanti avrebbe potuto migliorare lo stato generale della decadenza della fede e dei costumi.
Egli è ben consapevole che all’efficace formazione delle coscienze può contribuire la vita esemplare dei sacerdoti, parroci e vice-parroci in specie e che, senza tale fattore, molto difficilmente si potrebbero avere cristiani autentici e impegnati per il bene comune.
Montemurro diagnostica fra le cause responsabili dell’indolenza nel ministero sacerdotale, quella della «vita secolaresca» condotta da parroci e vice-parroci i quali, «con la loro poca diligenza» contribuiscono notevolmente «alla propagazione degli errori contro la fede. In tempi di universale corruzione e di errori ed eresie sempre più invadenti», Montemurro intende contrapporre rimedi pronti ed energici, specie l’insegnamento del catechismo, facendo, così, sue le ansie di Pio X.
Intanto va incontro a tutti, specialmente a tanti bambini poveri, «che chiedono il pane e non vi è chi possa spezzarlo loro». Si riferiva al pane per lo spirito e a quello per il corpo. Per potersi dedicare totalmente all’ apostolato, sotto la diretta obbedienza di un superiore, egli, in un primo momento pensa di abbracciare lo stato religioso. Prega, riflette, si consulta e comprende che Dio vuole altro da lui.
Il Fondatore
Mosso dunque dalla grazia dello Spirito Santo e incoraggiato dal Servo di Dio, Antonio M. Losito a dare avvio a opere permanenti di servizio pastorale e di educazione civica e religiosa, il 21 novembre 1907 fonda la Congregazione dei Piccoli Fratelli del SS.mo Sacramento per il culto eucaristico e la formazione di buoni parroci. Il 1° maggio 1908 fonda le Figlie del Sacro Costato per la riparazione delle offese che il Cuore di Gesù riceve specialmente dalle persone consacrate, e per l’educazione cristiana e civica delle fanciulle del popolo.
Per circa tre anni, suscitando vivo interesse anche fuori della sua diocesi, don Eustachio attende alla fondazione e allo sviluppo delle due Congregazioni. Qualche ecclesiastico di Gravina, però, ritenendo “eccesso di zelo” l’operato di lui previene il vescovo di Gravina, Nicola Zimarino.
A nulla vale per il presule l’aver consultato il canonico Annibale Maria Di Francia, dal quale riceve ottime garanzie sul Montemurro sia riguardo ai principi che lo animano, sia riguardo al progetto della sua incipiente fondazione. Il Di Francia, colto l’aspetto più originale del pensiero dell’amico Montemurro, il 1° ottobre 1910 scrive al vescovo di Gravina, mettendone in risalto lo scopo:
“Si tratterebbe di uno scopo assai santo, di colmare un vuoto che da secoli esiste nella Chiesa, di formare centri di salute eterna in ogni parrocchia, e di organizzare così il gregge di Dio, formando l’azione pastorale dei parroci quale deve essere all’altezza ed ampiezza della loro sacra responsabilità e del loro sacro ufficio”.
L’ora della croce
Purtroppo, mons. Zimarino, che pure apprezza Montemurro per la sua cultura, la pietà e l’integrità di vita, non ritiene realizzabili le Opere da lui avviate. Con suo ripetuto ricorso alla Congregazione dei Religiosi, il prelato provoca il Decreto 21 febbraio 1911 per la soppressione degli Istituti avviati dal suo sacerdote e il 23 giugno 1911 lo applica nella sua diocesi.
Don Eustachio, che ha sempre manifestato ferma decisione specie nel campo della giustizia, nella difesa dei poveri, nella tenacia dei propositi, dinanzi a tali accuse infondate, si sottomette alla volontà di Dio Padre e in tutto segue Gesù Cristo che, mite e umile, sale il Calvario. Egli non contesta, beve il calice dell’incomprensione e obbedisce in maniera incondizionata al suo vescovo e a tutti i superiori ecclesiastici, che lo privano della direzione delle Opere da lui fondate.
Circostanze particolari portano all’affidamento dei due Istituti al can. Annibale Maria Di Francia, amico di Montemurro e suo difensore presso la Congregazione dei Religiosi. Al redentorista p. Antonio Maria Losito, suo direttore spirituale, don Eustachio scrive:
“Padre, io non ricuso lavoro, ma se il Signore volesse da me ora questa prova dell’amore che gli porto cioè che mi distacchi dalle Opere in cui mi ha messo e che vada altrove in cerca di asilo, come Egli è andato, per diversi luoghi, io voglio contentare quel Cuore Adorabile che tanto ha sofferto per me nelle agonie del Getsemani e negli strazii del calvario […]. Di nessuna maniera voglio recare dispiacere al Santo Padre”.
Vescovi, cardinali e prelati si stringono attorno a don Eustachio. Essi constatano che il medico-sacerdote, fondatore di Opere utili alla Chiesa, è vittima di incresciose macchinazioni umane e con lettere ai dicasteri della Curia romana, al Papa e al visitatore apostolico difendono la sua pietà, umiltà, obbedienza e l’utilità grande del suo progetto di fondazione per la rivitalizzazione della Chiesa, specie del Mezzogiorno d’Italia.
Pio X, con suo telegramma, precedente l’8 dicembre 1911, consente il proseguimento dell’opera femminile e con ulteriore intervento del 28 giugno 1913, prega il vescovo di Gravina di permettere che don Eustachio e il suo compagno, don Saverio Valerio, possano passare alla diocesi di Nola e svolgere apostolato a Valle di Pompei.
Emigrazione a Pompei
Il 7 gennaio 1914 don Eustachio si trasferisce a Pompei, accolto con paterno affetto dal delegato pontificio, Sua Eminenza Augusto Silj, e dall’amico beato Bartolo Longo. Lo seguirà ben presto don Saverio Valerio, rimasto a Gravina per tacitare il popolo, contrario al loro allontanamento.
Nel 1915, disponendo della casa datagli allo scopo dalla Delegazione Pontificia, don Eustachio inizia ad accogliere qualche soggetto per riprendere l’Opera dei Piccoli Fratelli del SS.mo Sacramento, ma il vescovo Zimarino insiste per avere il ritorno periodico dei due a Gravina. Don Eustachio e don Saverio si rivolgono a S. S. Benedetto XV. Il Papa, a mezzo del Segretario di Stato, card. Pietro Gasparri, scrive al vescovo di Gravina, che è suo «augusto desiderio» che i due sacerdoti non si allontanino da Pompei «per il grande bene che essi fanno alle anime».
Sostenuta dall’autorità del card. Augusto Silj e dall’incoraggiamento del beato Bartolo Longo, in un primo momento sembra che la Congregazione maschile possa riprendere quota. Ma, lo scoppio della prima guerra mondiale, che porta via i primi membri e moltiplica il lavoro dei sacerdoti rimasti in campo pastorale, e l’epidemia di febbre spagnola, che vede in prima linea don Eustachio non solo come prete per l’amministrazione dei sacramenti, ma anche come medico, impediscono di realizzare l’Opera maschile, che tanto gli stava a cuore anche per il sostegno che in futuro avrebbe potuto dare all’Istituto femminile e alle associazioni laicali aggregate.
Con serenità e costanza eroica don Eustachio attende al ministero apostolico per tutta Valle di Pompei: lunghe ore al confessionale a conforto di quanti nel primo pomeriggio si recano al Santuario della Vergine del Rosario; catechesi ai fanciulli e agli adulti; direzione spirituale; missioni popolari; visite alle famiglie abbandonate nella campagna; cura pastorale degli infermi e dei moribondi, specialmente durante l’infuriare della febbre spagnola; disponibilità assoluta per chiunque avesse bisogno di aiuto e conforto.
Morte santa
Da Pompei don Eustachio segue con paterna sollecitudine le sorti delle Figlie del Sacro Costato le quali, dal 1918, corrono il pericolo di una scissione. Il Fondatore si adopera per scongiurarla, ma ogni speranza sua e di altri risulta vana. Egli, in una visione di fede e amore, rinnova l’offerta totale di sé a Cristo dal Costato trafitto, accettando anche questo sacrificio.
Chiude i suoi giorni all’alba del 2 gennaio 1923, lasciando dietro di sé una scia di discepoli, sacerdoti, religiosi e laici, i quali, attratti dal suo messaggio di «far conoscere agli uomini l’amore che Dio porta loro, affinché tutti lo amino e nessuno l’offenda», ne seguono l’insegnamento e l’esempio di vita completamente dedicata al servizio di Dio e dell ‘uomo.
Le Figlie del Sacro Costato, presenti oggi nella Chiesa in due distinte Congregazione di diritto pontificio, Suore Missionarie del Sacro Costato e di Maria SS.ma Addolorata e Suore Missionarie Catechiste del Sacro Cuore, operano in diverse parti del mondo.
La Congregazione dei Piccoli Fratelli del SS.mo Sacramento, scomparsa sul nascere, nel 1993, col consenso di S. E. Emilio Pignoli, vescovo di Campo Limpo – Brasile, riprende vita ad opera del sacerdote-parroco, Giovanni Volmir dos Santos. Attualmente essa conta oltre 50 membri, alcuni dei quali compiono la loro formazione in Italia.
Le due Congregazioni femminili si impegnano con zelo in campo catechistico, liturgico, pastorale, pedagogico, assistenziale e missionario mentre i Piccoli Fratelli del SS.mo Sacramento si dedicano prevalentemente alla rivitalizzazione delle parrocchie loro affidate, quali centri di vita spirituale e di servizio pastorale.