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Fratelli non schiavi – Intervista per Credere

In occasione della 47a Giornata Mondiale della Pace,
S.E. Mons. Giovanni Ricchiuti, nuovo Presidente di Pax Christi,
spiega il Messaggio di papa Francesco,
che si sintetizza nella frase: «La schiavitù è reato di lesa umanità

Quali le sembrano le suggestioni principali che emergono dal messaggio che il Papa ha voluto intitolare Non più schiavi, ma fratelli?

Un autentico “colpo d’ala” sul complesso tema della pace, sogno e progetto che possono far volare l’umanità se nelle relazioni interpersonali e nei contesti sociali si ritorna a parlare di fraternità e si ritrova il coraggio di recidere i lacci, tenuti drammaticamente insieme dal nodo delle nuove forme di schiavitù, che impediscono questo volo. Risuonano in tutto il messaggio la domanda severa posta da Dio a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”(Gen 4, 9) e, alla luce di tutta la parola di Dio, la buona notizia dell’essere noi, creature umane, figli di Dio-Padre, fratelli e sorelle in Cristo Gesù. Dignità della persona, responsabilità verso l’altro e bellezza della fraternità, dunque, sembrano essere le principali suggestioni del messaggio di Papa Francesco.

La schiavitù, scrive il Papa, è reato di «lesa umanità». In quali situazioni oggi questa affermazione sembra risuonare più forte per quanto riguarda l’Italia?

Che la schiavitù sia un reato di “lesa umanità” costituisce davvero una immagine forte nel linguaggio di papa Francesco, cui sta molto a cuore quanto accade nel mondo riguardo alle ferite che questa nostra storia mostra con vergogna e con dolore. In Italia? Credo che al primo posto ci sia la criminalità organizzata, che per proliferare ha bisogno di reclutare soprattutto ragazzi e giovani per spacciare, far prostituire, estorcere, corrompere e uccidere. Esistono poi il sottobosco e il sommerso nel mondo del lavoro dove, senza alcuna differenza di sesso e di età, in nome del profitto o di tagli di spesa, statali o aziendali che siano, si ledono i diritti più fondamentali di chi lavora attraverso forme di ricatto o di sfruttamento, anche dei minori. E, infine, là dove la dignità dell’uomo e della donna è offesa dalle varie forme di discriminazione, di emarginazione e dal non riconoscimento dei diritti umani fondamentali.

Francesco chiede a tutti di non girare la faccia dall’altra parte di fronte alle schiavitù che ci circondano. Quanto questo tema, a suo parere, è centrale nella catechesi e nelle omelie ordinarie nelle nostre parrocchie? E che preparazione c’è da parte dei sacerdoti su queste tematiche?

“Vedere e passare oltre” è metafora di quell’atteggiamento di indifferenza che sin dai tempi della parabola del buon Samaritano (Lc 10) interpella in modo provocatorio la nostra coscienza e costituisce, ancora di più oggi, un rischio e una tentazione sempre in agguato sul modo di annunciare e di vivere il Vangelo. Guardando il bicchiere, come si suol dire, posso affermare che è mezzo pieno, in riferimento all’eco che queste nuove forme di schiavitù hanno nella pastorale ordinaria e nella predicazione sulla parola di Dio da parte di noi vescovi e dei presbiteri. Bisogna certamente andare avanti e lavorare perché le nostre comunità – parrocchie, associazioni e movimenti – guidati da presbiteri intelligenti e coraggiosi, provochino su questi temi dibattiti e confronti e operino poi con gesti e segni profetici.

Pochi giorni fa il Papa ha firmato con i rappresentanti delle grandi religioni un appello contro la schiavitù. Quali sono oggi le strade per un dialogo della vita che porti alla pace tra le religioni?

Questa domanda fa riflettere sui tanti conflitti tra le religioni che non hanno certamente aiutato l’umanità a costruire un mondo di pace. E la storia, purtroppo, continua in qualche modo ancora oggi. Le religioni, a mio parere, devono riprendere il dialogo perché i credenti si riconoscano sorelle e fratelli, con verità, storie e tradizioni diverse ma unite dal desiderio di invocare Dio, di pregarlo insieme e, in nome suo, operare per contribuire alla riconciliazione dell’intera umanità abbattendo mura di incomprensioni, di antagonismo e di persecuzioni reciproche.

Lei è stato di recente nominato presidente di Pax Christi. Qual è il ruolo di questa realtà, oggi, nella Chiesa e nella società italiana?

Conosco Pax Christi da moltissimi anni, ne ho seguito e ne seguo il cammino che, a partire dal 1964, è stato presente nella Chiesa e nella società italiana attraverso un forte e talvolta “provocatorio” invito a smuovere le coscienze sui temi dell’educazione alla pace, soprattutto tra i giovani, della non violenza, dell’incontro tra le religioni e tra i popoli, della giustizia sociale e della difesa dei più deboli e dei più poveri. Il Consiglio permanente della Cei mi ha affidato questo incarico da circa un mese mentre eravamo riuniti in assemblea ad Assisi, che è la città della pace, coincidenza provvidenziale! Spero di compiere insieme agli amici di Pax Christi un cammino “di giustizia e di pace”, in nome di Gesù Cristo.

La marcia della pace di fine anno su cosa punta? E che significato ha questa tradizione che va avanti da anni?

La marcia nazionale della pace è giunta alla sua 47a celebrazione e ormai da alcuni anni Pax Christi “marcia” insieme alla Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, all’Azione cattolica italiana e alla Caritas italiana per un appuntamento che nel pomeriggio e nella notte del 31 di dicembre intende – alla luce del messaggio che il Santo Padre invia in occasione del 1° gennaio, Giornata mondiale della pace – riflettere e pregare. La marcia del 31 dicembre si svolge a Vicenza, luogo scelto per far memoria del primo grande conflitto mondiale (1914-1918), per ricordare tutti i perseguitati per la fede, per rilanciare con forza il tema della fraternità e, infine, nella celebrazione eucaristica in cattedrale per il rendimento di grazie al Signore, “principe della pace”.

+ Giovanni Ricchiuti


Intervista, a cura di Vittoria Prisciandaro, pubblicata su «Credere», Anno II – N. 52 – 28 Dicembre 2014, pp. 52-55.

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