XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO anno B – Mc 7,1-8.14-15.21-23
Vivere un Cristinamesimo autentico
Dopo la proclamazione del capitolo sesto di Giovanni, la liturgia continua la lettura di Marco. La riflessione del pane sembra ripresa dalla discussione iniziata dai farisei, scandalizzati dai discepoli, i quali “prendono cibo con mani impure” (Mc 7,2). I connazionali del Maestro, infatti, credendo di obbedire alle leggi di Dio, non mangiavano se non si lavavano le mani (v.3); in realtà, essi identificavano la fedeltà del “Dio vicino” (Dt 4,7) di cui parla Mosè con quelle “altre cose” che si fanno “per tradizione” (Mc 7,4).
La risposta del Signore agli scribi e ai farisei ci aiuta a comprendere la necessità di vigilare sulla purezza delle nostre pratiche. Il Maestro invita ciascuno di noi a non cadere nella tentazione di aggiungere qualcosa alla religione: l’essenza del cristianesimo è condivisione, non egoismo e neppure arrivismo a svantaggio di altri fratelli. Dio ha condiviso con l’uomo se stesso nel Figlio; e noi, ugualmente, dobbiamo condividere ciò che abbiamo ricevuto nel battesimo e nella partecipazione ai sacramenti con i più poveri, con quelli che hanno fame di giustizia e verità.
Dunque, l’essenza del nostro essere cristiani è la carità, l’amore che trasforma i cuori. A partire da un simile contesto, è possibile spiegare le parole del Salvatore: “dal cuore degli uomini escono i propositi di male” (v.21). Egli afferma che la creatura, senza l’aiuto divino, senza la conversione, il ritorno a Lui, non compie il bene, bensì esprime solo una meccanica religiosità, che non è cristianesimo. Ciò che Gesù vuole è che il rapporto con Dio e con le cose della vita in generale, non debba essere valutato sulla scorta di atteggiamenti più o meno rispondenti a delle leggi o a delle norme o a dei modi di fare ricevuti da chi ci ha insegnato la fede (le tradizioni), ma sull’intensità del nostro legame con Dio e con la vita, ovvero sul “cuore” che ci mettiamo quando facciamo qualcosa.
Per alcuni servire Dio e la nostra religione non è difficile: basta seguire le norme che la Chiesa ci indica, applicare il catechismo e i comandamenti, assolvere i precetti e con questo siamo a posto. È vero, è sufficiente questo per dirci appartenenti ad un gruppo religioso come la Chiesa. Ma per dire che amiamo Dio, questo non basta. Onorare Dio con le labbra non significa automaticamente amarlo con il cuore. Soprattutto se “onorare Dio” voglia dire farlo con atteggiamenti giusti e irreprensibili (tradizionali o innovativi) se poi questo ci porta a giudicare gli altri e disprezzarli, arrivando addirittura a pensare male di loro perché non fanno quello che facciamo noi, perché non credono come noi, perché non professano la loro dottrina e la loro fede così come lo facciamo noi. Peggio ancora se, a giustificazione delle nostre teorie, ci trinceriamo dietro il “rispetto della tradizione”, nella quale siamo certi che c’è infallibilità. Non è, quindi, questione di tradizione o di rinnovamento, di “assodato” o di alternativo”, di “solito e giusto” o di “nuovo e un po’ strano”, nel vivere il nostro rapporto con Dio.È solo questione di cuore. Si può essere uomini e donne di Dio anche se diversi, così come si può non amare Dio pur osservando tutti i precetti e le tradizioni che la Chiesa ci ha insegnato.
Se il nostro cuore non è tutto rivolto a Dio, non sarà certo l’osservanza o meno dei precetti a riportarlo verso di lui. E che il nostro cuore è per Dio, lo si capisce da come ci comportiamo nei confronti dei nostri fratelli e della vita in generale. Sarà, così, possibile essere cristiani dopo aver incontrato il Signore: Lui rende umili e puri, disponibili ad una risposta sincera alla Sua chiamata. L’uomo trasformato perché accoglie l’esodo divino, che è la volontà del Creatore di raggiungerlo, diviene creatura nuova, capace di discernere le impurità, e comportarsi in maniera degna della sua vocazione alla santità: nell’Altro vivere per gli altri.
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Vivere un Cristinamesimo autentico
Dopo la proclamazione del capitolo sesto di Giovanni, la liturgia continua la lettura di Marco. La riflessione del pane sembra ripresa dalla discussione iniziata dai farisei, scandalizzati dai discepoli, i quali “prendono cibo con mani impure” (Mc 7,2). I connazionali del Maestro, infatti, credendo di obbedire alle leggi di Dio, non mangiavano se non si lavavano le mani (v.3); in realtà, essi identificavano la fedeltà del “Dio vicino” (Dt 4,7) di cui parla Mosè con quelle “altre cose” che si fanno “per tradizione” (Mc 7,4).
La risposta del Signore agli scribi e ai farisei ci aiuta a comprendere la necessità di vigilare sulla purezza delle nostre pratiche. Il Maestro invita ciascuno di noi a non cadere nella tentazione di aggiungere qualcosa alla religione: l’essenza del cristianesimo è condivisione, non egoismo e neppure arrivismo a svantaggio di altri fratelli. Dio ha condiviso con l’uomo se stesso nel Figlio; e noi, ugualmente, dobbiamo condividere ciò che abbiamo ricevuto nel battesimo e nella partecipazione ai sacramenti con i più poveri, con quelli che hanno fame di giustizia e verità.
Dunque, l’essenza del nostro essere cristiani è la carità, l’amore che trasforma i cuori. A partire da un simile contesto, è possibile spiegare le parole del Salvatore: “dal cuore degli uomini escono i propositi di male” (v.21). Egli afferma che la creatura, senza l’aiuto divino, senza la conversione, il ritorno a Lui, non compie il bene, bensì esprime solo una meccanica religiosità, che non è cristianesimo. Ciò che Gesù vuole è che il rapporto con Dio e con le cose della vita in generale, non debba essere valutato sulla scorta di atteggiamenti più o meno rispondenti a delle leggi o a delle norme o a dei modi di fare ricevuti da chi ci ha insegnato la fede (le tradizioni), ma sull’intensità del nostro legame con Dio e con la vita, ovvero sul “cuore” che ci mettiamo quando facciamo qualcosa.
Per alcuni servire Dio e la nostra religione non è difficile: basta seguire le norme che la Chiesa ci indica, applicare il catechismo e i comandamenti, assolvere i precetti e con questo siamo a posto. È vero, è sufficiente questo per dirci appartenenti ad un gruppo religioso come la Chiesa. Ma per dire che amiamo Dio, questo non basta. Onorare Dio con le labbra non significa automaticamente amarlo con il cuore. Soprattutto se “onorare Dio” voglia dire farlo con atteggiamenti giusti e irreprensibili (tradizionali o innovativi) se poi questo ci porta a giudicare gli altri e disprezzarli, arrivando addirittura a pensare male di loro perché non fanno quello che facciamo noi, perché non credono come noi, perché non professano la loro dottrina e la loro fede così come lo facciamo noi. Peggio ancora se, a giustificazione delle nostre teorie, ci trinceriamo dietro il “rispetto della tradizione”, nella quale siamo certi che c’è infallibilità. Non è, quindi, questione di tradizione o di rinnovamento, di “assodato” o di alternativo”, di “solito e giusto” o di “nuovo e un po’ strano”, nel vivere il nostro rapporto con Dio.È solo questione di cuore. Si può essere uomini e donne di Dio anche se diversi, così come si può non amare Dio pur osservando tutti i precetti e le tradizioni che la Chiesa ci ha insegnato.
Se il nostro cuore non è tutto rivolto a Dio, non sarà certo l’osservanza o meno dei precetti a riportarlo verso di lui. E che il nostro cuore è per Dio, lo si capisce da come ci comportiamo nei confronti dei nostri fratelli e della vita in generale. Sarà, così, possibile essere cristiani dopo aver incontrato il Signore: Lui rende umili e puri, disponibili ad una risposta sincera alla Sua chiamata. L’uomo trasformato perché accoglie l’esodo divino, che è la volontà del Creatore di raggiungerlo, diviene creatura nuova, capace di discernere le impurità, e comportarsi in maniera degna della sua vocazione alla santità: nell’Altro vivere per gli altri.
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